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I PRIMI DIECI PESI MEDI ITALIANI

 

Esclusiva classificazione di Pietro Anselmi

L’avvincente viaggio nel passato pugilistico italiano che sportenote ha voluto rimettere nella valutazione dell’amico Pietro Anselmi, tramite la singolare e personalissima ripartizione dal primo al decimo posto dei pugili per ciascuna categoria di peso, ha raggiunto la divisione dei medi.
Ricordiamo che Pietro Anselmi è l’unico italiano ad avere i record di tutti gli atleti tesserati alla Fpi, dal primo all’ultimo, oltre ai palmares di tutti i campioni europei, che consulta quotidianamente nel suo archivio cartaceo, senza sfogliare annuari del passato o navigare tra i siti ritenuti specializzati.
L’esplorazione attivata da Pietro nella sua peculiare raccolta offre ai tanti appassionati reminiscenze e cognizioni sulla categoria di peso qui considerata.
Ecco la quinta "sfornata". Con un click sul nome di ciascun pugile si accede al record. Buona lettura.

 

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Quella dei pesi medi è considerata, da chi si occupa di pugilato, la "regina" delle categorie, la più bella in assoluto perché al limite di kg 72,574 l’armonia fisica, la velocità e relativa tecnica formano uno spettacolo superiore che in altre classi di peso. In poco più di cento anni sono nati campioni di valore assoluto e da questa graduatoria per forza di cose qualcuno rimarrà fuori dai miei primi dieci. Non è stato facile districarsi tra tanti campioni. Il dilemma iniziale è stato privilegiare chi ha vinto tutto o individuare colui che potenzialmente sarebbe stato il migliore? Come classificare i pugili d’anteguerra quando combattere all’estero voleva dire rimediare sconfitte sicure e quando il titolo europeo restava il massimo obiettivo da poter raggiungere, in quanto il titolo mondiale restava di esclusiva proprietà delle potenti organizzazioni americane.

Il primo posto tocca a Nino Benvenuti. Sicuramente l’istriano è stato il pugile più titolato d’Italia. Un vincente per natura. Osannato da chi ammirava la sua scherma sobria ma efficace, molto meno da quelli che amavano sul ring pugili guerrieri. Fu pugile dalle caratteristiche ottimali per un peso medio: tronco e statura da mediomassimo su gambe esili e vita stretta. Aveva il vantaggio di un allungo superiore a tutti i suoi avversari e la capacità di piazzare un devastante sinistro spesso decisivo dei suoi incontri. Dilettante con quasi duecento combattimenti disputati senza sconfitte (l’unica subita in Turchia con Akbas fu talmente abnorme che la Federazione gli concesse di toglierla dal suo curriculum). Campione d’Italia a Parma nel 1956 tra i pesi welter si ripeteva l’anno dopo a Bologna nella categoria superiore. Era il 1957 e trionfava ai campionati europei di Praga. Nel 1958 era ancora campione italiano a Terni e nel 1959 l’accoppiata Italia ed Europa gli riusciva a Milano e Lucerna. Nel 1960 vinceva per la quinta volta il campionato italiano a Torino e le Olimpiadi a Roma. Con questo strabiliante curriculum passava al professionismo. La sua intelligenza pugilistica gli permise di ben adattarsi alla distanza e ad avversari diversi. Ben guidato e sostenuto da un’ottima organizzazione, il suo rodaggio durava 29 confronti in due anni e solo dopo puntava al primo titolo da pro. A Modena Tommaso Truppi durava undici round mentre a Priverno ne bastarono tre per liquidare Francesco Fiori. Chi lo impegnava fino al limite sul ring di Sanremo fu Fabio Bettini, mentre Truppi in rivincita abbandonava al quinto round. Era il 1965 l’anno d’oro di Giovanni Benvenuti. Lasciato il titolo italiano, scendeva di categoria per la famosa sfida mondiale a Sandro Mazzinghi, seguita dalla difesa del titolo contro lo stesso toscano, i cui incontri sono entrati a far parte della storia dei superwelter come quello con il coreano Kim Soo Ki. Durante questo intermezzo Benvenuti conquistava il titolo europeo battendo al palasport di Roma uno strafottente spagnolo, Luis  Folledo, sceso nella Capitale con dichiarazioni velenose e spavalde. Il gancio sinistro di Nino al sesto round fece giustizia. Il panorama continentale, impoverito dal ritiro dall’attività del grande Laszlo Papp (dal quale saggiamente il pugile italiano si era tenuto alla larga) non era terreno da coltivare dopo il facile successo su Pascal Di Benedetto ed il mondiale si trovava alle porte. Erano di moda allora, sotto il governo dei potenti organizzatori di New York, i tre combattimenti per il titolo. Il primo lo vince uno, il secondo l’altro e la “bella” al migliore. Fu così che al Madison Square Garden di New York Benvenuti al termine di un drammatico combattimento sostenuto contro Emile Griffith, con i due avversari al tappeto, una volta a testa, diventava il primo atleta pugilisticamente nato in Italia a conquistare un mondiale. Cinque mesi dopo un opaco Benvenuti veniva superato dallo scatenato pugile delle Isole Vergini. Era ancora al Madison Square Garden di New York, davanti a 18.000 spettatori, che il terzo confronto divenne quello della verità. Fu un match molto duro nel quale Benvenuti, dopo aver atterrato Griffith, seppe condurre saggiamente in suo favore, resistendo al tremendo forcing finale del rivale. Portato il titolo in Italia, dobbiamo dare atto a chi ne ha guidato la carriera di aver saputo trovare gli avversari giusti senza fargli correre eccessivi rischi. Don Fullmer, Frase Scott, Luis Manuel Rodriguez e Tom Bethea in rivincita, dopo un infortunio in Australia senza titolo in palio, furono tutti superati tranquillamente. L’errore fu, secondo il mio parere, aver accettato la sfida dello sconosciuto Carlos Monzon, non ampiamente valutato in tutta la sua pericolosità. Si è visto in seguito la grandezza del pugile argentino. Benvenuti ha sempre sofferto i pugili di alta statura ed oltretutto sentiva il peso di un cammino oneroso sotto il profilo fisico. A Roma il devastante fuori combattimento subito al dodicesimo round e le tre riprese con eguale risultato nella rivincita di Montecarlo di fatto hanno chiuso la brillante stagione di uno dei più grandi pugili italiani.

La seconda posizione la riservo a Tiberio Mitri. È  stato un pugile che ha fatto sognare tutti coloro che lo hanno visto all’opera. Con lui il pugilato italiano ritornava ai vertici continentali e forse avrebbe potuto fare più di quanto raccolto: genio sul ring e sregolatezza nella vita, ha conosciuto momenti di gloria esaltante e di avversità infinita dipesa solo da se stesso. Peso medio naturale, dotato di classe immensa, scatto, varietà di colpi e intelligenza tattica, era amato perché non misurava i rischi pur di piacere al pubblico. Fu breve il suo passato dilettantistico: a diciannove anni era già professionista con le stigmate del campione. Praticamente imbattuto (la sconfitta per squalifica con Casadei non fa testo) conquistava il suo primo titolo, quello nazionale, superando Michele Marini ex campione dell’Africa Orientale Italiana. Quindi a Trieste difendeva la corona dall’assalto di Giovanni Manca in uno scontro combattuto e corretto, dove la tecnica pugilistica venne nobilitata da due atleti di classe elevata. Lasciava il titolo italiano e la vittorie su Laurent Dauthuille, Dick Turpin e Mickey Laurent gli schiusero le porte dell’Europa. L’impresa Tiberio la compiva a Bruxelles, nella tana del detentore del titolo e sullo stesso ring dove il grande Marcel Cerdan aveva subito una delle poche sconfitte della sua carriera. Una folla innumerevole, fra cui molti minatori italiani, assistettero all’imprevedibile, con il "Tarzan" belga due volte al tappeto. Fu un match di estrema violenza dove il triestino ha eguagliato il campione locale in vigore ma lo ha nettamente superato in classe e tecnica. L’urlo dei minatori italiani presenti e gli scroscianti applausi del cavalleresco pubblico sancirono la nascita di un grande talento. A Parigi dove lo avevano ammirato in occasione della sua vittoria su Dauthuille, vollero subito rivederlo all’opera e gli opposero, titolo in palio, il loro campione Jean Stock. Quindicimila spettatori deliranti ammirarono il sinistro duro e tempestivo mentre il perfetto gioco di gambe suscitava mormorii d’ammirazione. Alla quattordicesima ripresa, il francese ormai “groggy” veniva letteralmente risparmiato tra il delirante entusiasmo del pubblico francese. Al culmine della fama e del successo Mitri e chi lo dirigeva peccarono di presunzione accettando il combattimento per il titolo mondiale contro Jake La Motta. Non era il momento giusto. Tiberio, sposato da un mese con l’attrice Fulvia Franco partiva per l’America dove avrebbe concluso la preparazione. Con la testa altrove, lui a New York ad allenarsi, lei a Hollywood a promuovere la sua figura, non poteva essere nelle migliori condizioni per un combattimento così importante. Un Mitri irriconoscibile non seppe contrastare con la sua classe la proverbiale carica agonistica dell’italo-americano, ma resistette con orgoglio per tute le quindici riprese. Il duro match lasciava strascichi nella sua sicurezza e tornato a Parigi le sconfitte con Ritter ed Humez ne furono la conseguenza. Ridusse la sua attività dedicandosi alla ricostruzione della sua  credibilità. Lo vidi all’opera in questo periodo a Milano e vi assicuro che non ho mai visto un pugile di tal fatta: elegante, con un gioco di gambe ineguagliabile, quasi un balletto ed una classe infinita che faceva sembrare belli anche i suoi combattimenti con avversari inferiori. Dopo tredici match positivi ottenne una seconda occasione di conquistare il titolo europeo. Il campione in carica era il mulatto inglese Randy Turpin già campione del mondo della categoria. A Roma il match fu brevissimo: il baldanzoso Turpin prendeva l’iniziativa ma sul finire del round un perfetto sinistro doppiato in gancio con lo stesso braccio sorprendeva l’inglese, il quale atterrato non sapeva riprendersi e veniva fermato dall’arbitro. Si disse che il colpo fu lungamente preparato in palestra, i detrattori parlarono di colpo fortunato. Sembrava l’inizio di una nuova fase ma lo aspettava al varco la sua bestia nera, quel Charles Humez che lo aveva battuto a Parigi. Sei mesi dopo a Milano perdeva il titolo europeo. Io c’ero. Tiberio saliva sul ring come un automa, lo sguardo fisso nel vuoto, perse il combattimento prima di cominciarlo. Un gelido silenzio accolse la fine del breve match, senza storia. I milanesi volevano bene al triestino. Continuava a combattere ancora per un paio d’anni contro avversari di buona levatura per chiudere con 101 combattimenti disputati con solo 7 sconfitte. Secondo me sarebbe stato il più grande di tutti senza l’inciampo La Motta.

Il terzo gradino lo dedico a Sumbu Kalambay, ribattezzato affettuosamente Patrizio dagli ammiratori italiani. Fu tra i tanti africani che negli anni ottanta del secolo scorso vennero in Italia in cerca di fortuna, Sumbu, nato a Lumumbashi nello Zaire, sembrava uno dei tanti ma nelle Marche trovava l’ambiente ideale. Una lunga serie di affermazioni lo imposero all’attenzione generale. Sposato con un’italiana, ottenne la cittadinanza e fu l’inizio del suo cammino verso le alte graduatorie pugilistiche. Kalambay era pugile completo: fantasia tecnica e pugno pesante. Queste qualità naturali, unitamente ad una condizione fisica ottimale, lo portarono ben presto a conquistare il titolo europeo e mondiale. Ma prima volle onorare il titolo italiano come imperativo di riconoscenza verso il paese che lo aveva accolto. Superava Giovanni De Marco una prima volta a Caserta ed in rivincita a Silvi Marina. Tra i due match tentava un primo assalto alla corona europea. Ad Ancona incappava in una serata negativa e veniva battuto da Ayub Kalule. Questo passo falso evidentemente trasse in inganno gli inglesi che chiamarono Kalambay a Londra per incontrare Herol Graham, diventato da poco campione d’Europa. Alla Wembley Arena l’italiano compiva una impresa storica dando un’autentica lezione di pugilato all’imbattuto campione inglese. Le due caratteristiche di autentico fuoriclasse risaltarono nel susseguente match valevole per il mondiale WBA contro Iran Barklay. Azionando uno splendido sinistro dominava il confronto e di fatto diventava il terzo italiano a cingere la prestigiosa corona dei pesi medi. Fu questo il suo periodo migliore: la sua classe istintiva entusiasmava ed il confronto con l’allora imbattuto Mike McCallum ne fu la riprova. Il match venne giudicato come uno dei più belli che si siano mai visti fino ad allora. Il giamaicano seppe dimostrare in seguito di essere un grande della categoria. A Ravenna domava le velleità di Robbie Sims e a Montecarlo fulminava Doug De Witt con la più classica delle combinazioni di cui era maestro. Le sirene americane lo allettarono e accettava la riunificazione dei titolo WBA e IBF. Il progetto naufragava e la WBA gli toglieva il titolo mentre non riusciva a conquistare la corona IBF. Un maligno colpo a freddo lo fulminava al primo round al cospetto di Michael Nunn. Aveva trentatre anni e si pensava fosse l’inizio di una naturale decadenza. Viceversa Kalamabay seppe riprendersi alla grande rivolgendo le sue attenzioni alla più abbordabile Europa. Tolse la corona continentale a Francesco Dell’Aquila, inginocchiato alla nona ripresa; stessa sorte toccava al forte francese Frederic Sellier a Tolone. Questi due successi gli davano la carica per un nuovo tentativo di rientrare in possesso del mondiale WBA.  La sfortuna, sottoforma di una incrinatura al costato, e la giovinezza del suo antico rivale McCallum, gli negarono una nuova impresa, stante il leggero divario a fine match, tra i due contendenti. Ma era ancora campione d’Europa: John Ashton e Miograd Perunovic vennero facilmente respinti. Contro l’antico rivale Herol Graham e l’indomabile irlandese Steve Collins effettuava le sue ultime apparizioni continentali prima di chiudere una impareggiabile carriera tentando un ultimo assalto ad una corona mondiale.  L’agonismo e la gioventù di Chris Pyatt a Leicester gli tolsero l’ultima illusione. Furono tredici anni intensi che caratterizzarono la sua figura di pugile e del suo comportamento sul ring da portare ad esempio per i futuri campioni.

Al quarto posto vedo Mario Bosisio. È  stato il primo campionissimo della boxe italiana. La sua classe, il limpido stile unito alla genialità hanno di fatto elevato la boxe da mero gesto di forza alla tanto decantata "noble art",  della quale, purtroppo oggi, si è perso il seme. Professionista a diciannove anni fu campione d’Italia da peso leggero e da peso welter. Oltre al titolo italiano conquistava anche l’europeo contro il grande Piet Hobin, che manteneva poi nei confronti di Noel Steenhhorst, Emile Romerio e Arie Van Vliet. Dopo l’ultima difesa dell’europeo dei welter passava tra i pesi medi e gli ultimi cinque anni furono esaltanti nella nuova categoria. Il grande combattimento con Bruno Frattini gli valse la corona di campione d’Italia, malgrado rendesse tre chili di vantaggio al grande avversario. L’anno seguente lo difendeva con un pareggio dall’assalto di Leone Jacovacci. Al Palazzo dello Sport di Milano si stabiliva il record d’incasso con diciassettemila spettatori. Il "nero di Roma" in quel momento forse il miglior peso medio d’Europa tenne fede al suo valore e fu sul punto di vincere clamorosamente. L’orgoglio e la grande tecnica del milanese gli permisero una grande rimonta nelle riprese finali fino al pareggio. Nel frattempo Barthelemy Molina era succeduto d’ufficio a René Devos (il fatto non viene ricordato da nessun record book), e non ebbe difficoltà a scendere a Milano in difesa della corona. Il match fu molto equilibrato: il giudice francese aveva espresso un giudizio di parità mentre gli altri due della terna giudicante, uno svizzero e l’altro italiano, videro vincitore Bosisio. Poco si parla di questo Molina che in realtà si chiamava Bartolomeo Molinero, nato a Marsiglia da genitori entrambi vercellesi. Era un campione, imbattibile sui dieci round, perdeva smalto sulle distanze più lunghe. Questa sua lacuna permise a Bosisio, uomo di fondo, un prodigioso recupero finale. Non trascorsero nemmeno due mesi che "Mariolino" metteva in palio i suoi due titoli in rivincita contro Leone Jacovacci, questa volta a Roma. Se a Milano il romano si era sentito defraudato della vittoria ora le parti si sono invertite. La grande prestazione del campione in carica, il quale sciorinava sul ring dello Stadio tutta la sua scienza pugilistica, supportata da armonia e vigore fisico, non furono adeguatamente apprezzate dai giudici che attribuirono la vittoria al rivale. Bosisio che di fatto era ancora campione dei pesi welter difese questo titolo contro Romolo Parboni con un pari a Roma e una vittoria a Milano prima di perderlo contro Vittorio Venturi. Il limite della categoria dei pesi welter non poteva più essere sostenuto e ritornato tra i medi ritrovava da subito il grande rivale Leone Jacovacci che nel frattempo aveva perso la corona  europea. A Milano, titolo italiano in palio, Bosisio si prese la più bella delle rivincite. Al termine di uno dei suoi migliori combattimenti, autoritario e sicuro dominava l’irriducibile avversario che più di lui sentiva il peso di una logorante carriera. Dopo aver respinto il fiumano Mario Dobrez, rivolgeva nuovamente le sue attenzioni alla corona continentale in possesso di un altro grandissimo pugile francese, Marcel Thil. Questi, conscio della sua forza scendeva tracotante a Milano dove diecimila spettatori entusiasti fecero da corona al combattimento. Fu una sfida esaltante che si risolse solo nell’ultimo round. La vittoria, carpita solo alla fine del match, sottolineava ancora una volte le grandi doti di fondo e la capacità di distribuire con intelligenza le forze che lo hanno portato sul tetto d’Europa per la seconda volta. Tre mesi dopo era Enzo Fiermonte a doversi inchinare alla superiorità tecnica del campione. Questi accettava di mettersi in gioco a Vienna ben sapendo che nella capitale austriaca sarebbe stato difficile vincere se non prima del limite. Fu così che perse il titolo contro il locale Leopold Steinback. Alla soglia dei trenta anni, non vecchio ma con una lunga carriera alle spalle, gli rimaneva il solo titolo italiano che mise in palio con Enzo Fiermonte. Il romano, reduce da una brillante campagna in America, riusciva nell’intento di togliergli l’ultimo trofeo. Mario Bosisio al suo ritiro lasciava un ricordo imperituro di grande del ring e di grande uomo.

Sul quinto scranno posiziono Leone Jacovacci. Un bellissimo libro su questo personaggio ci ha fatto conoscere nei dettagli la sua avventura pugilistica ed umana. Nato nel Congo da padre romano e madre del luogo, crebbe in provincia fino a quindici anni. Fuggiva e si imbarcava come mozzo sulle navi di sua maestà britannica dove con il nome di Jack Walker imparava la boxe. Dotato di scatto felino e pugno pesante, esordiva a Londra a diciassette anni, con una lunga serie di vittorie prima del limite. La sua iniziale carriera si svolse in gran parte tra l’Inghilterra e la Francia, dove era molto apprezzato. Nel 1922, notato dal presidente della FPI Edoardo Mazzia, venne convinto a riprendere il suo vero nome e con esso venne tesserato nel nostro paese. Combattè per la prima volta a Milano contro Bruno Frattini e da quel momento tutti i migliori pesi medi del vecchio continente assaggiarono la consistenza dei suoi pugni. Il pareggio con Bosisio a Milano  e la vittoria a Roma gli consentirono la conquista delle corone di campione d’Italia e d’Europa della categoria. Le crepe di una dispendiosa carriera cominciarono a farsi sentire con il combattimento in difesa del titolo europeo a Milano, quando faticava a battere il non eccelso tedesco Hein Domgoergen. La capitale francese ha sempre esercitato un fascino speciale su di lui e a Parigi Marcel Thil, contro il quale aveva vinto in precedenza, ebbe modo di prendersi la rivincita e l’ambito titolo. Al puglie romano non rimaneva che il titolo italiano che difendeva a stento con tre pareggi, due contro Giuseppe Oldani e uno con Mario Dobrez. L’evidente calo fisico veniva rimarcato ancora di più a Milano dove perdeva con il suo grande rivale Mario Bosisio.

Al numero sesto attribuisco il nome di Bruno Frattini, soprannominato "Cuor di Leone" per l’ardimento ed il coraggio con cui affrontava ogni avversario in ogni parte del mondo. Fu un globe trotter senza paura. Francia, Inghilterra, Marocco, Stati Uniti, Egitto, Sud Africa, Sud America e Australia lo hanno visto protagonista di grandi battaglie. Con pochi combattimenti dilettantistici come peso leggero passava al professionismo poco dopo la fine della Grande Guerra. Subito imponeva la sua superiorità nazionale conquistando il titolo italiano battendo Vittorio Berzolese che si esibiva con il nome di battaglia Battling Week. Al suo cinquantaquattresimo combattimento conquistava il titolo europeo surclassando a sorpresa un campione di tecnica pugilistica come l’inglese Roland Todd. Per sottolineare la tempra di Frattini, basta dire che nonostante tale match durissimo, dopo soli quindici giorni pareggiava a Parigi contro Francis Charles, il miglior peso medio francese di quel periodo. La difesa del titolo europeo a Londra viene ricordata come uno dei più grossi scandali dell’epoca. La netta vittoria del milanese al termine di una furiosa battaglia condotta contro Tommy Milligan, venne trasformata in sconfitta all’Holland Park di Londra. Con un contorno imponente di folla furono a confronto la fredda tecnica dell’inglese, con il jab sinistro in bella evidenza, e l’aggressività latina tutta cuore e generosità. Per tre volte il britannico si trovò sull’orlo della sconfitta clamorosa: una prima volta fu salvato dal gong, le altre due con vistosi placcaggi oltre il consentito bellamente ignorati dall’arbitro di casa. I tre giudici, anch’essi inglesi, conclusero l’opera a favore del connazionale. Milligan non volle più incontrare Frattini e abbandonava il titolo. Divenuta la corona vacante, giustamente la IBU assegnava a Frattini la qualifica di primo challenger. A sfidarlo fu il belga René Devos un fuoriclasse che contava la bellezza di 130 combattimenti con solo otto sconfitte. La superiore tecnica del belga ebbe la meglio al termine di un combattimento in equilibrio fino a due riprese dal termine. Il suo periodo migliore volgeva al termine mentre cresceva quello del suo grande rivale e concittadino Mario Bosisio contro il quale metteva in palio il titolo italiano rimasto in suo possesso da oltre sette anni senza nessun sfidante. All’Arena  di Milano la sfida stracittadina volse a favore del più giovane rivale. Bruno Frattini combatteva ancora per alcuni anni prima di chiudere l’attività agonistica da vincitore.

Il settimo posto lo dedico a Carlo Duran, argentino di nascita con il nome Juan Carlos Duran. Fu pugile dalla boxe molto personale che privilegiava il gesto tecnico rispetto alla violenza dei colpi. Dopo aver iniziato l’attività in Argentina sbarcava in Italia in cerca di migliori opportunità e si stabiliva a Ferrara. Dopo il matrimonio arriva la cittadinanza italiana e il nome Carlo diventa preminente rispetto alla dizione sudamericana. Naturalmente il titolo nazionale fu il suo primo passo verso altri traguardi. Bruno Santini, campione in carica, nella sede estiva del Circolo della Stampa di Torino, fece la figura dello scolaretto sotto l’imperversare del sinistro di Duran, implacabile stantuffo a torto considerato privo di potenza. Anche Fabio Bettini al Teatro Ariston di Sanremo dovette inchinarsi alla classe superiore del ferrarese, come Luciano Lugli tra le mura amiche del Teatro Comunale di Rimini dovette lasciare spazio alla schiacciante superiorità tecnica e tattica di Duran. L’emergente Mario Lamagna, a Napoli, la sua città, si guadagnava grande considerazione nell’impegnare Duran nel Palasport cittadino ma non potè evitare la sconfitta. Prima di abbandonare il titolo concesse la rivincita a Tommaso Truppi a Sanremo. La possibilità di perdere a causa di una profonda ferita subìta al secondo round lo scatenava al punto di costringere al getto della spugna i secondi del pugile modenese. Nei successivi quattro anni il suo campo d’azione naturale fu l’Europa. Benvenuti aveva abbandonato la corona continentale e Carlo Duran fu prescelto a battersi per il titolo con Luis Folledo. Al Palasport di Torino, al termine di una gara accorta e tutta "ragionata" diventava il sesto pugile italiano a cingere la corona europea dei pesi medi. Ben cinque difese consecutive testificano la sua superiorità in quel periodo. A Birmingham dopo un’indegna corrida, l’inglese Wally Swift venne squalificato per reiterate testate. A Colonia in Germania, purtroppo il destino lo poneva di fronte ad un dramma non preventivato. Jupp Elze forte di un successo discutibile su Duran alcuni anni prima, volle sfidarlo, titolo in palio. Duran impostava il combattimento nel suo solito stile: attendere gli attacchi del rivale, contenerli con il suo magico sinistro in attesa di fiondare il destro decisivo. Ma qualcosa di diverso c’era nell’atteggiamento del tedesco; si muoveva come un automa, reagiva per forza d’inerzia alla superiorità del campione. L’intento di arrivare alla fine del match per usufruire del verdetto compiacente del giudici era evidente. Se ne accorse Duran che cominciò ad affondare i colpi sullo stremato avversario che a stento alzava il braccio in segno d’abbandono. La corsa verso l’ospedale e l’inutile operazione sanciva la tragica fine del ventinovenne pugile tedesco. L’autopsia rivelava che Elze aveva assunto sostanze dopanti che lo avevano portato oltre i suoi limiti. Nessuno pagava per il malfatto tranne il sensibile Carlo Duran che faticava a riprendersi dal triste episodio di cui non aveva colpa. Otto mesi dopo a Milano, respinse Johnny Pritchett, un solido scorretto lottatore squalificato per testate. Fu un brutto match ma i dubbi di un repentino declino del pugile di Ferrara scomparvero dopo la brillante difesa contro Hans Dieter Schwartz dominato a Montecatini Terme con estrema facilità. Fu Tom Bogs a spodestarlo nella sua tana di Copenaghen. Duran nell’occasione non riuscì a contrastare la giovinezza del forte avversario ma promise a tutti che si sarebbe preso la rivincita. Puntualmente, quindici mesi dopo, a Roma, il biondo danese veniva ridimensionato e Carlo Duran riconquistava il suo titolo. Ormai con trentacinque  primavere sulle spalle era inutile coltivare ulteriori ambizioni e si recava a Parigi dove lo attendeva un campione nel fiore del suo cammino, Jean Claude Bouttier. Duran venne battuto ma la decorosa prova dell’italiano venne sottolineata dalla stampa transalpina. Il suo orgoglio gli impediva di chiudere la carriera da sconfitto: tentava la riconquista del campionato italiano pesi medi ma il match con Luciano Sarti che mantenne il titolo, finiva in parità. Non domo scendeva nella categoria inferiore dei superwelter e sfidava a Sanremo il campione europeo in carica Josè Hernandez, vincendo tra la sorpresa generale in quanto lo spagnolo godeva di molta considerazione. Questa sua nuova ed ultima avventura durava solo un anno: a Schio superava Jacques Kechichian e a Vienna un declinante Johann Orsolics prima di concedere la rivincita al franco-armeno Jacques Kechichian contro il quale disputava il suo ultimo match.

All’ottava posizione vedo Vito Antuofermo, un inesauribile combattente forgiatosi  sugli infuocati ring americani. Originario della provincia di Bari, divenne uno specialista del cosiddetto "infighting", tecnica pugilistica che esaltava il suo temperamento battagliero, portato alla lotta nella corta distanza. Spettacolare peso medio, si era creato buona fama a New York dove era l’idolo degli italo-americani prima di approdare in Italia nell’operazione recupero degli oriundi. Un ritorno alle origini in un viaggio a ritroso di emigrante. Aveva disputato fino a quel momento poco più di venti combattimenti con una sola sconfitta, per ferita contro Harold Weston, in seguito avversario di nomi cari a noi italiani quali Bruno Arcari e Rocky Mattioli e di tanti altri campioni del mondo. Ma il suo taccuino registrava anche prestigiose vittorie su Danny Moyer ed Emil Griffith. Era un peso medio ma rientrava facilmente nella categoria inferiore, nella quale conquistava il titolo europeo a Berlino superando Eckehard Dagge. Lo lasciava nelle mani del forte inglese Maurice Hope non prima di averlo difeso una volta dall’assalto del francese Jean Claude Warusfel. Il definitivo passaggio nella categoria dei pesi medi lo proiettava tra i primi delle classifiche mondiali attraverso le probanti vittorie su Gene ”Cyclone” Hart e su Benny Briscoe, che gli fecero ottenere la qualifica di sfidante al titolo mondiale in possesso di Hugo Corro. Il momento era favorevole in quanto l’avversario non era di assoluta grandezza. Così a Montecarlo realizzava l’impresa di scalzare l’argentino dal trono mondiale. Fece molto discutere il successivo combattimento a difesa della sua corona contro il ”Meraviglioso” Marvin Hagler, inchiodato sul pari da un Antuofermo superlativo per combattività e stoicismo. La maggior caratura tecnica del grande avversario, per i puristi avrebbe dovuto essere premiata, ma una volta tanto i giudici americani, per me giustamente, sottolinearono altre doti, quali il cuore, il coraggio e l’aggressività. La bellissima e dura battaglia tolse molte energie al nostro campione, che non seppe ripetersi al cospetto dell’inglese Alan Minter, divenuto il giustiziere dei pugili italiani. Ormai aveva dato il  meglio di sé e si  ritirava dopo un improduttivo assalto a Marvin Hagler che nel frattempo aveva scalzato Minter. Nuove velleità con risultati incoraggianti presero forma alcuni anni dopo ma una inaspettata battuta d’arresto gli consigliava di dedicarsi ad altro.

Sullo scalino numero nove piazzo Agostino Cardamone, pugile di stampo antico, senza fronzoli ma di grande sostanza. Fisico scolpito nel granito, freddo e determinato sul ring, molti lo paragonarono al grande Michele Palermo, suo   conterraneo. Scelse la boxe come vocazione a prezzo di grandi sacrifici, senza lasciare il lavoro di carpentiere. Al pugile irpino spetta il merito di aver riportato i valori della categoria ad un livello molto alto dopo un ultimo periodo non eccezionale. La sua rivalità con Silvio Branco contro il quale conquistava il suo primo titolo doveva caratterizzare buona parte degli anni novanta. A Civitavecchia sul ring allestito in un capannone industriale, i due rivali si contesero il titolo che Dell’Aquila aveva lasciato vacante. Branco godeva dei favori del pronostico, più potente e con un allungo superiore non aveva fatto i conti con l’eccellente condizione atletica di Cardamone. Questi, dopo un inizio guardingo, con un gran destro abbatteva il più alto avversario al quinto round.  L’atterramento toglieva sicurezza al pugile di casa al quale non bastava la reazione finale per rimontare la china. La decisione divisa che sanciva il verdetto a favore di Cardamone non rendeva giustizia al pugile avellinese, giusto vincitore. La difesa del titolo contro Pompilio sul ring casalingo di Montoro Inferiore ribadiva i netti miglioramenti che la "roccia irpina" evidenziava ad ogni uscita. Il foggiano, buon tecnico, non resse al lucido impeto del campione che lo stroncava al nono round. La stessa sorte toccava a De Cecilia finito con una strepitosa serie di ganci micidiali. Senza avversari in campo nazionale Agostino si sentiva pronto per il titolo europeo lasciato vacante da Kalambay. Gli contese la vacante corona Francesco Dell’Aquila che tentava un reinserimento ad alto livello. Non aveva fatto i conti con la grande determinazione di Cardamone  il  quale con un gancio sinistro al fegato lo liquidava con un impressionante fuori combattimento. Personaggio schivo, mai oltre le righe, amava parlare con i fatti più che con le parole. Conquistato il titolo, si dedicava alla sua difesa senza paura. In Francia a Berck, a casa del suo avversario Frederik Sellier, dimostrava una capacità   di soffrire che ne esaltava ancor più la figura; una frattura al metacarpo della mano sinistra, subita al quinto round non lo fermava. Dopo un match aspro e senza un attimo di respiro usciva vittorioso dalla contesa. A Vitoria, cittadina dei Paesi Baschi,  Gino Lelong non ha potuto che opporre grande coraggio alla superiorità del pugile italiano. A Solofra, anche un eccellente tecnico come l’inglese Neville Brown non ha avuto scampo. Bersagliato al corpo da un sinistraccio continuo e potente l’inglese non tardava a sentirne i deleteri effetti. Con le gambe appesantite non seppe più evitare il colpo risolutore al settimo round. A Sanremo la spettacolare e selvaggia lotta contro Shaun Cummings, altro britannico di buona quotazione, lo vedeva trionfare con rabbia malgrado un atterramento subito nel corso dell’ottava ripresa. L’opportunità di un combattimento mondiale lo induceva ad abbandonare la corona continentale. A Boston l’aspettava Julian Jackson, grande pugile e campione per la WBC. Il combattimento, teletrasmesso anche in Italia, all’inizio aveva illuso un po’ tutti: Cardamone attaccava spavaldo e deciso, colpendo duramente il campione in carica che finiva il round ferito. Capito il pericolo, l’americano, classe e potenza, coglieva l’attimo in cui il nostro coraggioso attaccante abbassava la guardia nell’euforia del momento favorevole. Il destro fulminante ne spegneva i sogni di gloria. La sconfitta lo obbligava ad un periodo di riposo, intanto il titolo europeo era tornato vacante dopo la rinuncia di Richie Woodhall che lo aveva conquistato contro Silvio Branco (gli intrecci tra i due rivali si susseguono). Cardamone avrebbe dovuto incontrare l’antico avversario Neville Brown, da lui nettamente battuto ma, all’ultimo momento, gli venne opposto il russo Alex Zaitsev, pugile dalle caratteristiche  opposte a quelle dell’inglese. Fu un’altra brutta battuta d’arresto per il pugile di Montoro, ma non era nel suo carattere darsi per vinto. Due anni più tardi a Serino, nel cuore della sua Irpinia, diventava il quattordicesimo atleta della categoria a riconquistare il titolo dell’antico continente. Il russo Zaitsev questa volta, al termine di un combattimento durissimo veniva battuto. Era il periodo in cui tra le sigle mondiali si era aggiunta un’altra denominata World Boxing Union e che per la divisione dei pesi medi aveva come campione l’altro italiano Silvio Branco, antico avversario di Cardamone. Il civitavecchiese Branco voleva ardentemente la rivincita su Cardamone. Questo ente mondiale, eclissatosi in pochi anni, ha avuto il merito di mettere nuovamente di fronte due campioni di stampo italiano, cavallereschi rivali, i quali avrebbero potuto benissimo incontrarsi anche e solamente per il titolo italiano. Il match e l’interesse sarebbe stato lo stesso. Sono i campioni che rendono bello un confronto non certo le etichette. La sfida tutta nostrana, disputata al Palapentassuglia di Brindisi, mise in risalto la vera essenza del pugilato. Il combattimento regalava emozioni. Il sontuoso jab sinistro di Branco risultava una barriera invalicabile per l’indomito sfidante, teso ad accorciare la distanza. Il vantaggio dell’atleta di Civitavecchia risultava chiaro alla fine del nono round e già si pregustava la succosa riuscita rivincita. Un attimo di disattenzione ed il gancio sinistro di Cardamone lo coglieva al mento per il più classico dei KO. Fu solo fortunato? L’avellinese non ha mai avuto timori nel combattere in campi avversi, fidandosi delle sue capacità fisiche ed interiori. Forte di questi presupposti concedeva un’ulteriore possibilità al rivale, ancora una volta a casa sua. A Civitavecchia, con le tifoserie scatenate, Cardamone chiudeva definitivamente il conto e la rivalità con l’avversario iniziata sette anni prima. Ma tutto ha una fine. A trentaquattro anni ed una carriera dispendiosa l’irpino  non aveva più la forza reattiva che lo ha sempre caratterizzato. Il combattimento contro l’olandese originario del Suriname Ray Joval doveva essere l’ultimo per scelta. Noie al ginocchio sinistro e alla schiena lo avevano costretto più volte ad interrompere la preparazione e furono troppi i chili da smaltire per rientrare nei limiti di peso della categoria. L’agile avversario lo costrinse ad un combattimento sofferto e dopo aver tentato il tutto per tutto arrivava il getto della spugna. Sconfitta che non intacca minimamente dieci anni di gloria sui quadrati nazionali ed internazionali. Alla fine del 1999 alla Certosa di S.Giacomo di Capri riceveva il premio "Fair Play International" che una prestigiosa giuria gli aveva assegnato. Tutti avevano visto in TV il gesto consolatorio ed amorevole nei confronti di  Silvio Branco che tardava a riprendersi dopo il duro fuori combattimento. Zittiva i suoi uomini d’angolo, che esultavano per la vittoria, prima di sincerarsi delle condizioni fisiche del rivale. Una dimostrazione della sua profonda sensibilità umana, che ha lasciato una traccia profonda e degna di nota nella storia del pugilato italiano.

Al decimo posto colloco Italo Scortichini. Il fabrianese è il classico esempio di quanto sia diversa la boxe professionistica da quella dei dilettanti. Dopo pochi combattimenti con la maglietta, senza particolari affermazioni, il giovane peso welter lasciava il ruolo dei "puri" ed iniziava un’esaltante progressione tra i professionisti.  Le sue caratteristiche fisiche ed il temperamento gagliardo ben si adattarono alle   lunghe distanze, ma fu negli Stati Uniti che esplose in tutto il suo potenziale di feroce combattente che sapeva esaltare le folle. Per dare un’idea del suo valore diciamo che batteva i buoni pugili e perdeva solo con i campioni del mondo. Kid Gavilan, Carmen Basilio e Gil Turner due volte, Joey Giambra, Maurice Harper, Carmine Fiore, Chico  Vejar e Bobby Boyd sono i nomi prestigiosi che si trovano sul suo record. Tutti hanno dovuto sudare per aver ragione del pirotecnico marchigiano che in America chiamavano "Scortchy". Tra le sue affermazioni più significative figurano le vittorie su Willie Pastrano, non ancora campione del mondo, su Luther Rawlings ed i pareggi con Carmen Basilio e Joe Miceli.  Tra una trasferta e l’altra ebbe modo di conquistare nel lontano Estremo Oriente il titolo di campione delle Filippine dei pesi medi. Tornato in Italia divenne naturalmente un idolo dei tifosi milanesi che impararono ad apprezzare il suo gagliardo modo di battersi. Nella capitale lombarda Scortichini sfiorava il trionfo nel match per il titolo europeo contro Charles Humez, che vantava solo successi nei confronti degli italiani. Al nono round un perfetto crochet sinistro atterrava l’incredulo campione francese. Esplodeva il pubblico del Velodromo Vigorelli ma Humez, che era in vantaggio di punti, riusciva a far passare il brutto momento con tutto il mestiere di cui era provvisto. L’arrembaggio finale di Scortichini, una foga cieca e precipitosa, fu molto spettacolare ma all’atto pratico sterile. Con queste credenziali, l’anno seguente non disdegnava l’assalto al vacante titolo italiano. Gino Rossi di Pordenone era il suo competitore, un atleta senza particolari qualità ma duro attaccante. Al Velodromo Vigorelli di Milano fu un match accanito, drammatico e a volte convulso, che ha esaltato il pubblico presente. Rossi, superiore ad ogni aspettativa, voleva il titolo come Scortichini, attaccava con foga ma i colpi meno numerosi ma più incisivi diedero la vittoria, di misura con solo due punti, al pugile di Fabriano. Scortichini non disdegnava i confronti diretti, come fanno i pugili di oggi, e metteva in palio il titolo con il brindisino di media quotazione, Angelo Brisci. Questi, con coraggio e generosità si oppose al più forte avversario, ma un gancio sinistro alla carotide lo pose drammaticamente fuori combattimento. Fu quindi la volta di Giancarlo Garbelli, altro idolo delle folle milanesi. Si prevedeva una battaglia furibonda tra due atleti dal temperamento leonino, viceversa ne uscì un combattimento imprevedibile. Garbelli invece di buttarsi all’attacco come suo solito, agiva solo di rimessa portandosi in vantaggio. Scortichini, capito che in quel modo avrebbe perso, smise di attaccare. I due rimasero sulla difensiva e nel nono round vennero squalificati per mancanza di combattività da un arbitro molto severo e precipitoso. Successivamente abbandonava il titolo e concludeva la sua carriera dopo pochi incontri. A Scortichini è mancato poco per essere paragonato ai grandi pugili italiani che lo hanno preceduto.

Pietro Anselmi

 

 

 

 

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