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I PRIMI DIECI PESI SUPERLEGGERI ITALIANI

 

Esclusiva classificazione di Pietro Anselmi

Continua l’aspirazione vantata da sportenote di pubblicare la catalogazione dei primi dieci ex pugili professionisti italiani di ciascuna categoria di peso. L’amico Pietro Anselmi è giunto all’analisi dei pesi superleggeri. Questi, con meticolosa competenza e grande maestria espositiva, continua a farci comprendere le ragioni addotte per la determinazione delle singole posizioni, tenuto conto delle diverse generazioni nelle quali gli atleti si sono esibiti.
Ecco l'ottava "sfornata". Con un click sul nome di ciascun pugile si accede al record. Buona lettura.

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La categoria dei pesi superleggeri con valenza mondiale, nata in America nel 1922, sospesa nel 1935, fu ripristinata nel giugno de1 1959. In Italia sarà riconosciuta dall’anno seguente grazie a Duilio Loi che sarà incoronato campione iridato. La Fpi la istituirà a far data dal novembre del 1963 con l’inaugurazione del campionato italiano. Vista la meno longevità del suo percorso sembra una categoria di facile lettura, ma anche in questo capitolo abbondano i campioni, alcuni dei quali in più divisioni. Giovanni Parisi, che ha militato nelle due categorie tra i superleggeri dopo essere stato nella divisione di peso inferiore, lo valuteremo tra i pesi leggeri.

Il primo posto lo dedico a Bruno Arcari per il quale, sintetizzare la sua figura di grandissimo del pugilato è impresa ardua. Secondo il mio parere è da collocare in una ipotetica classifica «pound for pound» assieme a Duilio Loi in cima ai valori assoluti di ogni tempo. Ciociaro di Atina, giunse a Genova con la famiglia per sfuggire agli orrori della guerra. Alla morte della madre ed in continuo dissenso con il padre dovette assumersi il mantenimento dei tre fratelli. Il lavoro di fruttivendolo lo alternava con la palestra. Una sontuosa militanza tra i dilettanti ne fecero un predestinato ma pochi credevano nel suo valore assoluto. La sua macchina atletica ebbe modo di esaltarsi in seguito sulle lunghe distanze. Protagonista di venti combattimenti in maglia azzurra, fu due volte campione italiano a Modena nel 1962 e a Pesaro l’anno successivo. Vincitore di diversi tornei internazionali, conquistava la medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo che si svolsero a Napoli nel 1963. Nello stesso anno fu medaglia di bronzo agli europei di Mosca e campione mondiale militari a Francoforte. A Tokyo trionfava nella Preolimpica candidandosi a possibile vincitore nelle Olimpiadi dell’anno dopo. Il 1964 lo vedeva ancora vincitore ai mondiali militari ma nell’appuntamento più importante della stagione, le Olimpiadi, al primo turno una ferita lo toglieva di gara. Si evidenziava così un problema che lo avrebbe assillato nella prima parte della carriera professionistica. Questa iniziava con una sconfitta con il modesto Franco Colella, dovuta alla ferita all’arcata sopracciliare che si ripeteva a Senigallia nell’agosto del 1966 quando, per la prima volta, diede l’assalto al titolo italiano superleggeri. Quella con Massimo Consolati fu la seconda ed ultima delusione di tutta la sua carriera. Uno che non avesse avuto la sua tempra di combattente avrebbe potuto demoralizzarsi ma Bruno con Rocco Agostino e con il sostegno dell’organizzatore Rino Tommasi, che credevano ciecamente nelle sue qualità, inanellava una sinfonia di successi che per gradi lo portarono sul tetto del mondo. Carpiva il titolo italiano in rivincita su Consolati; il verdetto per squalifica non rende giustizia al vincitore perché per sei riprese il suo ritmo martellante aveva ridotto a mal partito l’anconetano. A Genova vinceva facilmente sul romagnolo Efrem Donati in dodici round mentre Romano Bianchi ad Arenzano resisteva una sola ripresa; per respingere Pietro Vargellini dovette impiegarne solo quattro. Senza avversari in Italia si sentiva pronto per l’Europa. A Vienna il 7 maggio 1968 Arcari disputava il match più bello della sua fresca carriera. Il diretto destro, Bruno era mancino, sarebbe stata un’arma devastante che Johan Orsolics dovette subire per dodici round quando veniva fermato dall’arbitro davanti a quindicimila spettatori annichiliti. Anche nel vecchio continente nessuno sapeva resistere al nostro campione; a Sanremo l’inglese Des Rea durava sei riprese, cinque mesi dopo a Roma ne occorsero sette per disintegrare il tedesco Willy Quator. Juan “Sombrita” Albornoz veniva messo fuori combattimento al sesto a Sanremo mentre a fine anno a Bologna, José Luis Torcida non ascoltava il gong del quinto round. Bruno Arcari era pronto per mire più ambiziose. La ITOS di Rino Tommasi fece un piccolo capolavoro nel portare in Italia il campione del mondo versione WBC, il filippino Pedro Adigue. A Roma il 31 gennaio 1970 si assistette ad una battaglia furiosa tra due mastini che, colpo su colpo, si batterono per quindici riprese di una bellezza agonistica mai vista in Italia. Bruno Arcari, con pieno merito conquistava il titolo che avrebbe mantenuto per più di quattro anni e che avrebbe lasciato solo per problemi di peso. Statisticamente non viene considerato “campione assoluto” in quanto era iniziato il periodo deleterio delle sigle mondiali e la WBA aveva altri campioni che onestamente erano inferiori al nostro. Negli anni della sua supremazia per ben nove volte respingeva sfidanti di valore. Il francese Renè Roque si faceva squalificare sul ring di Lignano Sabbiadoro mentre il brasiliano Raymundo Dias rotolava sulla stuoia al terzo round a Genova. A Roma nel marzo del 1971 disputava con Joao Henrique un match da cineteca. Enrique Jana in nove round e Domingo Barrera Corpas in dieci, anticipavano il trionfo su Joao Henrique che ha voluto riprovare memore della grande battaglia dell’anno prima. Il brasiliano però questa volta veniva fulminato al dodicesimo round stroncato dalla furiosa veemenza di Bruno Arcari, sempre più forte. A Torino resistette per tutto il combattimento lo sfuggente Everaldo Costa Acevedo, mestierante rotto ad ogni astuzia del ring. Il match era molto sentito in quel momento per la rivalità delle rispettive scuderie, quasi un derby in quanto il giramondo argentino aveva preso casa a Pavia. Successivamente, a Copenaghen, stendeva in cinque round il pluricampione europeo Jorgen Hansen e a Torino nel suo ultimo combattimento per il titolo mondiale costringeva Tony Ortiz alla squalifica in otto tempi. Non riuscendo a mantenere il limite di peso dei superleggeri optava per la categoria superiore rincorrendo vanamente un confronto mondiale con il grande Josè Napoles. In questo ultimo periodo ottenne diverse importanti vittorie ed un pareggio imposto al campione nascente Rocky Mattioli, più tardi campione del mondo dei superwelter. Concludeva la sua gloriosa carriera nella sua città con il successo su Jessie Lara dopo settantadue confronti con le due sole sconfitte per ferita ad inizio carriera. Da persona previdente Bruno Arcari aveva pensato al futuro diventando proprietario di un avviata stazione di servizio all’entrata dell’autostrada a Genova. Ma non lasciava il pugilato diventando manager.

Alla seconda postazione colloco Patrizio Oliva. La sua figura si staglia maestosa tra i grandi perché ha vinto tutto quanto era nelle sue possibilità. Numerosi i titoli conquistati da dilettante: campione italiano nei pesi piuma nel 1976, e tra i leggeri nel 1977 e 1978; campione europeo junior, medaglia d’argento agli europei del 1979 ed infine campione d’Olimpia a Mosca l’anno successivo. Pugile intelligente ha saputo sfruttare appieno le sue qualità essenziali; una grande tecnica basata su un sinistro adatto sia all’offesa che alla difesa, ha avuto il grande merito di non stravolgere il suo tipo di pugilato al passaggio sulla lunga distanza. Il suo campo d’azione iniziale fu tra i superleggeri dove al titolo italiano aggiunse quello più prestigioso di campione d’Europa. A Forio d’Ischia nel 1981 coglieva la prima perla di una carriera da predestinato. Giuseppe Russi veniva fulminato in due riprese, titolo italiano in palio. Otto minuti impiegava per liquidare, sullo stesso ring il concittadino Antonio Antino. A Napoli l’anno dopo Bruno Simili resisteva otto riprese ma fece la stessa fine dei predecessori. Giuseppe Martinese e Luciano Navarra resisteranno per i canonici dodici rounds. Con questi avversari, Patrizio Oliva dimostrava di avere acquisito il fondo necessario per traguardi più prestigiosi. Forio d’Ischia ancora una volta di testimone di un grande evento. Il 5 gennaio 1983 conquistava il titolo europeo della categoria. Il francese Robert Gambini, pugile tosto ed agguerrito, perse ai punti solo perché Patrizio cominciava a sentire dolori alla mano destra che lo limitava nell’affondare i colpi. Il guaio si trascinava per diverso tempo ma non gli impediva di difendere il titolo per sette volte. A Napoli lo spagnolo Francisco Leon fu battuto all’undicesimo round mente a Rapallo quattro mesi dopo, Antonio Guinaldo, anch’esso spagnolo, finiva in piedi superato senza discussioni. Il primo severo esame lo superava a Milano contro il naturalizzato italiano Juan José Gimenez, pugile esperto capace di impegnarlo sul piano tecnico. Il 1984 lo vedeva trionfare per tre volte: in aprile a San Giuseppe Vesuviano travolgeva José Ramon Gomez Fouz in quattro riprese mentre in settembre ad Acciaroli controllava con classe il rissoso francese di colore Tsukoleta Nkalankete. A fine anno a Catanzaro trionfava sullo  svizzero Michel Giroud in otto round. L’ultima difesa della corona europea la effettuava con il grossetano Alessandro Scapecchi a Nocera Inferiore dopo di che  abbandonava il titolo. La corona mondiale versione WBA era nel mirino. Ubaldo Sacco argentino di talento ma dalla vita sregolata, sapeva di essere all’ultima spiaggia  e sul ring cercava la guerra. E guerra fu; Patrizio, conscio di dover snaturare il suo tipo di pugilato, picchiò con cattiveria, seppe soffrire e replicare sfruttando le pause dell’argentino. Scese dal ring vittorioso e felice per aver risposto positivamente ai suoi molti detrattori. Due difese di comodo con Brian Brunette e Rodolfo Gonzales ad Agrigento, prima del fatidico confronto con il semisconosciuto, fino a quel momento, Juan Martin Coggi che poi avrebbe regnato a lungo. L’argentino, soprannominato «la frusta», mise a segno il suo micidiale pugno a Ribera in Sicilia il 4 luglio 1987. La nausea del ring fu la principale causa della disfatta. Si prendeva una salutare pausa iniziando l’attività di manager che condusse per diverso tempo. Due anni esatti più tardi ei ripresentava sul ring come peso welter rientrando di diritto nella storia della sua nuova categoria. Il merito va ascritto al titolo europeo conquistato nella fase finale della carriera.

Sul terzo gradino pongo Gianluca Branco, autore di una carriera lunga 25 anni, che è stata intensa, non tanto per numero di match disputati quanto per il valore degli stessi. Alla sua collezione manca solamente un mondiale, titolo da lui cercato con ostinazione ma inutilmente. Prorompente la sua apparizione tra i superleggeri nostrani con molteplici soluzioni anzitempo nei primi dodici combattimenti disputati e quando Piccirillo abbandonava il titolo italiano Gianluca Branco si trovava in prima fila per aggiudicarselo. A Castellamare di Stabia superava solamente ai punti Francesco Cioffi, che è stato capace di impegnarlo duramente. Il pugile di Civitavecchia, tecnico con pugno pungente e con una capacità di autocritica lodevole, non rimase molto soddisfatto del risultato, abituato com’era a risolvere in anticipo i suoi combattimenti. Ritornava imperioso nella prima difesa del titolo contro l’ex-campione dei pesi leggeri Antonio Strabello. Questi resisteva sei riprese mentre nel successivo confronto per il titolo nazionale Massimo Bertozzi lo portava al limite dei dieci round. Una serata a corrente alternata che Gianluca non riteneva soddisfacente malgrado la netta vittoria. Abbandonava l’insegna del primato nazionale ma non si sentiva ancora pronto per dare l’assalto al campionato europeo. Passavano tre anni  in cui la sua imbattibilità si incrementava di altri undici combattimenti. L’occasione giusta la trova il  23 giugno 2001 a Massy, in Francia, battendo Gabriel Mapouka. Difese il titolo a Civitavecchia con una vittoria per decisione tecnica dopo sei riprese sull’inglese George Scott mentre a Montecatini regolava Allan Vester con un perentorio successo conseguito al decimo round. In attesa di un mondiale non si adattava ad un’attività di routine. Abbandonava l’europeo e rimaneva inattivo per un intero anno. Rientrava all’attività proprio in occasione del sospirato incontro per il titolo mondiale, targato WBC. Purtroppo per lui a contrastarlo era il “paisano” Arturo Gatti nel suo miglior periodo. Gianluca disputava un grande combattimento e soccombeva di misura. Non soddisfatto del risultato, cocciutamente inseguiva una nuova opportunità che gli veniva offerta da Miguel Cotto a Bayamon, in Portorico, il 4 marzo 2006. Sconfitto per la seconda volta rivolgeva le sue attenzioni al più abbordabile campo continentale. A Torino nel maggio 2008, superando l’inglese Colin Lynes, ritornava in possesso del titolo dopo sei stagioni alla bella età di trentotto anni. Respingeva con un’ottima prestazione a Milano il finlandese Juho Tolppola prima di cedere il titolo a Matthew Hatton a Daghenham, nel Regno Unito. Sembrerebbe tutto finito dopo la terza sconfitta del suo percorso ma Gianluca Branco non demorde, sale di categoria e dopo essersi aggiudicato il titolo di campione dell’Unione europea battendo nella sua città Krzystof Bienas, compiva un’altra impresa. A Terracina alla bella età di 44 anni conquistava  anche il massimo alloro continentale costringendo all’abbandoni Rafal Jackievitcz. Campione d’Europa abbandonava l’attività.

La quarta posizione l’assegno a Sandro Lopopolo. Milanese di origini pugliesi Lopopolo fu il successore del grande Duilio Loi sul trono mondiale dei superleggeri, ma la sua abulica freddezza sul quadrato non gli permise di conquistare in pieno la stima dei tifosi della sua città. Di famiglia numerosa si adattava ben presto a piccoli lavori. Fece il fattorino presso una rivista di tennis e nel frattempo si adoperava come  raccattapalle presso il T.C. Milano. L’ambiente sportivo lo fece avvicinare al pugilato presso la società Alfa Romeo con il maestro Gigi Graziani. Pugile tecnico, schermitore piacevole ma poco spettacolare, ottenne allori sia in campo dilettantistico che professionale. Con la canottiera fu campione d’Italia tra i piuma a Milano nel 1959 e l’anno dopo fece parte dello squadrone italiano alle Olimpiadi di Roma, conquistando la medaglia d’argento. Il passaggio al professionismo lo trova brillante autore di trentuno combattimenti senza sconfitte che lo portarono al titolo italiano dei pesi superleggeri appena costituita, diventandone il capofila con la vittoria su Franco Caruso a Mestre nel novembre del 1963. Respinse con autorità, prima Giordano Campari a St.Vincent e Massimo Consolati a Senigallia prima di inciampare nella classica buccia di banana impersonata da Piero Brandi. Questi a Treviso gli toglieva il titolo dopo un match svogliato, che lasciava per la prima volta intuire i limiti psicologici del campione. Fu una sconfitta che seppe lavare immediatamente con una perentoria prestazione, riconquistando la corona e con essa la possibilità di incontrare Juan Albornoz “Sombrita”a Santa Cruz de Tenerife per l’europeo di categoria. Un verdetto molto casalingo lo privava del successo e dopo aver respinto Romano Bianchi per il campionato nazionale, otteneva una insperata chance di incontrare il campione del mondo Carlos “El Morocho” Hernandez. L’avvenimento, per grande merito della ITOS di Rino Tommasi ebbe luogo sul ring del Palaeur di Roma nell’aprile del 1966. Lopopolo sovvertiva ogni pronostico: forzando il suo apatico temperamento attaccava per dodici round con boxe agile e redditizia, sorprendendo il campione al quale era stato descritto come tiepido incontrista. Resistette con forza al veemente ritorno del venezuelano, fortissimo picchiatore e malgrado un atterramento negli ultimi secondi del match vinceva di misura. Il milanese metteva subito a reddito il titolo recandosi a Caracas e a Buenos Aires dove, senza mettere in palio la corona iridata, dovette sopportare due sconfitte con Vicente Rivas e Nicolino Loche. Difende con successo la cintura mondiale proprio contro Vicente Rivas, a Roma, liquidandolo all’ottava ripresa. cancellando la sconfitta subita tre mesi prima. Ad un anno dalla sua incoronazione gli fu fatale il viaggio in Giappone dove l’esplosivo gancio di Paul  Fuji lo mise fuori combattimento tecnico nella seconda ripresa. Si era presentato non al meglio della forma e la critica non fu tenera nei suoi confronti. Quel gancio sinistro avrebbe segnato il suo declino. Malgrado tutto seppe riacquistare vigore fino a meritarsi un match per l’europeo contro Renè Roque. Il titolo europeo era stato lasciato vacante da Bruno Arcari e a Montecatini un verdetto scandalo gli toglieva ogni illusione. Due successi a Parigi su Marcel Cerdan jr e Roger Menetrey gli procurano altre due occasioni di rientrare nel grande giro. Due anni dopo a Parigi, ancora una volta a titolo vacante, contro Roger Zami la sua classe non è bastata per fermare un mastino come il francese. Dopo aver dettato legge nella prima parte del match, accusava la fatica fatta per rientrare nei limiti di peso e lasciava via libera al competitore. Passa nei pesi welter e a fine 1972 a Grenoble incontra quel Roger Menetrey da lui battuto l’anno precedente. Ma era destino che il titolo europeo non riuscisse mai a conquistarlo. Conduceva un match generoso al punto da essere in vantaggio alla fine dell’ottava ripresa prima di cedere all’irruenza del francese. Disputava ancora un solo combattimento vittorioso su Pietro Gasparri quindi appendeva i guantoni al chiodo chiudendo una eccellente carriera ma con il rammarico che avrebbe potuto dare qualcosa in più.

Al quinto posto metto Michele Di Rocco. Umbro di etnia Rom, una condizione di cui è sempre stato molto fiero, entra giovanissimo in una palestra di pugilato e per questo abbandonerà gli studi. Ha talento, è veloce e all’inizio degli anni 2000 inizia ad affermarsi a livello nazionale. Conquista per tre volte il titolo italiano dei pesi leggeri, nel 2000 a Pisa, nel 2001 a Roma a nel 2002 a Maddaloni. Nel contempo entra a far parte del clan azzurro. Nel 2002 è medaglia di bronzo a Perm. E’ ancora dilettante quando nel 2003 sale di categoria e conquista un nuovo titolo italiano a Rovigo. Dopo i Giochi olimpici passa al professionismo e al suo nono combattimento conquista il titolo italiano a spese di Massimo Bertozzi, davanti al suo pubblico a Bastia Umbra. La sua boxe precisa e potente in un paio d’anni lo promuove a elemento di valore internazionale. Dopo aver difeso il titolo italiano con Antonio Mastantuono, superato ai punti, e Giorgio Marinelli, pareggiando a Roma anche per la cintura dell’Unione europea messa in palio dal romano, in seguito arriva a spodestare Marinelli dalla porzione del vecchio continente. Il nuovo titolo lo impegna nella difesa vittoriosa contro il finlandese Juho Tolppola, battuto ad Helsinki, ed in quella rocambolesca effettuata nei confronti di Giuseppe Lauri al quale la cede nel corso della settima ripresa. Sulle vicende del match combattuto con Lauri si discuterà a lungo ma Di Rocco dovrà ricominciare d’accapo. Cambierà Team ed allenatore e solo dopo cinque anni potrà gustare il sapore gioioso della rivincita nel confronti di Giuseppe Lauri, fulminato nel primo round, nella sfida valevole per la vacante cintura dell’Unione europea. Segue il successo sull’inglese Lenny Daws che lo consacra campione EBU a Brindisi. Quattro perentorie difese contro Willie  Pispainen a Milano, Ruben  Nieto a Fuenlabrada in Spagna, poi Kasper Bruun e Alexander Lepellier a Milano lo confermano ai vertici della categoria. Da campione in carica abbandona il titolo per affrontare il titolare della WBA Ricky Burns. Il 28 maggio 2016 a Glasgow sarà l’addio ai sogni con un’amara sconfitta. A 34 anni abbandonerà il ring.

Il sesto scranno lo lascio ad Efrem Calamati. A diciassette anni presentava già le stigmate del campione, una definizione che si consoliderà nel tempo. Da dilettante disputava 130 combattimenti e pur vincendo diversi tornei, non aveva mai primeggiato agli Assoluti. A ventuno anni lasciava il dilettantismo e seguiva le orme del padre Pietro, che fu ai suoi tempi pugile professionista e che gli aveva trasmesso la passione per lo sport guantato. Dall’aspetto mite e ben educato sapeva essere forte e determinato come l’acciaio. In possesso di un pugilato pulito, tecnica perfetta, veloce  e grande  colpo d’occhio  che gli permetteva di eludere i pugni pericolosi dei suoi avversari. Dava inizio ad una fantastica carriera ed in meno di quattro stagioni, da imbattuto in ventuno combattimenti, coglieva il suo primo titolo. Ad Arezzo, la sua città, strappava la corona di campione d’Italia a Salvatore Nardino per ferita. La sua determinazione e il coraggio nel credere in se stesso, lo dimostra il fatto che subito dopo averlo conquistato, abbandonerà il titolo italiano per affrontare un atleta forte e pericoloso picchiatore come il francese originario dello Zaire, Tusikoleta N’Kalankete. Arezzo si fece in quattro nel volere il match valevole per il campionato continentale e Calamati non deluse i molti tifosi accorsi al palasport delle Caselle nel gennaio del 1989. Furono dodici round di grande intensità agonistica, la classica sfida tra il tecnico ed il picchiatore. Una decisione divisa con un punto di vantaggio per due giudici su tre confermano l’equilibrio del match che portava l’aretino ed essere il secondo pugile della città, dopo Mario D’Agata, a fregiarsi del titolo europeo nonché quinto italiano nella categoria dopo Arcari, Bandini, Martinese e Oliva. La conferma del suo valore avverrà con le vittoriose difese del titolo. Ad Arezzo superava nettamente ai punti il francese Madjid Maddhioub  mentre a San Sepolcro debellava con una perfetta combinazione di colpi l’inglese di origine giamaicana Clinton McKenzie. Una passeggiata in Spagna, a Bilbao, giusto per battere nettamente Carlos Sole e rimpinguare il conto in banca. Un Calamati in chiaroscuro, a Spinello, paesino nell’entroterra forlivese in un nuovissimo centro “Sportitalia”, superava il modesto Angel Hernandez, pericoloso solo per le testate che sapeva dare. Ma dietro l’angolo era in agguato il britannico Pat Barrett pugile un po’ statico ma con la folgore nei pugni. Le prime riprese condotte in vantaggio dall’aretino, il quale imponeva la sua limpida scherma, lo fecero diventare spavaldo fino a dimenticare le più elementari misure di sicurezza e la folgore lo colpiva al quarto round. Un K.O. drammatico perché nella caduta picchiava violentemente il capo sul tappeto. La ricerca affannosa di un Ospedale adatto per una TAC d’urgenza non faceva che acuire le preoccupazioni di un giorno infernale. Fortunatamente tutto si risolse per il meglio. Dopo aver rinfoderato propositi di ritiro ritornava all’attività con nel mirino il titolo italiano per provare a ritornare in alto. A Cuneo toglieva il titolo a Bruno Vottero e quattro mesi dopo ad Arezzo superava nettamente Giuseppe De Palma malgrado subisse un atterramento. Mauro Corrente sul ring di Civitavecchia finiva “out” dopo tre round mentre Maurizio Tralongo lo impegnava oltre misura a Gualdo Tadino, complici problemi di peso ed una frattura ad una mano, tanto da indurlo al salto di categoria. Superati i problemi contingenti, sul ring di Sinalunga, Massimo Bertozzi lo portava al limite delle riprese per ottenere una vittoria  senza  entusiasmare. In attesa del programmato assalto al titolo mondiale batteva per la seconda volta il pugliese Giuseppe De Palma con una lenta ma efficace azione demolitrice che si è concretizzata al penultimo round. Abbandonato il titolo italiano ad Arezzo affrontava Zack Padilla titolare WBO, il quarto Ente mondiale in ordine di nascita ed importanza. Durava solo tre stupende riprese il sogno mondiale di Efrem Calamati  quando il suo pugilato ordinato e veloce non dava modo al californiano di replicare. Alla quarta ripresa si spegneva la luce, un blocco mentale lo irrigidiva. Costretto a scambiare colpi con un mastino di poca classe ma estremamente efficace, pian piano si svuotava di ogni energia fino all’abbandono della lotta che era diventata impari. Fosse stato pari al Calamati prima maniera sicuramente si sarebbe portato a casa un titolo mondiale. Con trentanove combattimenti dei quali quindici titolati e solo due sconfitte Efrem Calamati si pone tra i grandi della categoria.

La settima collocazione la dispenso a Brunet Zamora. Nacque nel 1974 a Cuba, a L’Avana, dove ha iniziato a dare i  primi pugni in una palestra locale. Nel 1996 si trasferisce con la madre, un fratello e quattro sorelle in Italia, prima a Trieste e poi a Udine dove nell’Accademia Pugilistica Udinese inizia il pugilato in Italia. L’intensa attività dilettantistica lo impone subito all’attenzione dei tecnici federali ed in breve diventa una colonna della Nazionale azzurra. Nel 1999 è campione d’Italia a Bologna nei pesi leggeri. Nel 2002 vince il campionato d’Europa a Perm e ancora il titolo italiano a Maddaloni come superleggero. Nel 2004 sempre a Maddaloni diventa campione tra i pesi welter. Numerosi sono stati i tornei vinti nel suo periodo dilettantistico ma è stata una logorante attività che, come lui stesso ammise, avrebbe dovuto troncare prima e passare al professionismo più giovane. Aveva 31 anni quando decise il grande passo nel 2005. Pugile veloce, tecnicamente completo e fantasioso, ben presto si impone come il migliore della categoria. Sul finire del primo anno conquista il vacante titolo IBF internazionale superleggeri battendo ai punti Massimo Bertozzi. Al tredicesimo combattimento si laurea campione d’Italia superando Alfredo Di Feto, titolo che difese una sola volta contro Emanuele De Prophetis prima di riprendere l’attività sovrannazionale che lo ha portato a vincere il titolo WBA internazionale superleggeri, difeso sei volte. Questa sequela di incontri gli procurarono un combattimento per il vacante titolo mondiale interim della WBA che si tenne a Panama City il 22 ottobre 2011 contro il pugile locale Alberto Mosquera. Il match fu giudicato in parità da una giuria a dir poco partigiana ed è stato un brutto colpo per Zamora che capiva che ad un’età avanzata come la sua non avrebbe potuto effettuare  ulteriori tentativi con esito positivo. Infatti l’anno dopo a Ufi in Russia, contro Denis Shafikov, titolo europeo in palio, nulla ha potuto contro il valore e la giovinezza del russo. Malgrado tutto ha saputo conquistare il titolo dell’Unione europea dei pesi leggeri prima di chiudere la carriera a 41 anni.

L’ottavo posto spetta a Giuseppe Martinese. Nato a Gallipoli ma residente a Senigallia, dove ha iniziato la sua carriera professionistica proveniente da un itinerario dilettantistico estero tra  Germania, Lussemburgo e Francia, al suo apparire non lasciava trapelare qualità tali da portarlo a conquistare un titolo continentale e per ben tre volte il titolo italiano in ben diciassette confronti titolati. Pugile tenace dalla boxe ostica e difficile, al suo ventesimo match si fregiava in modo fortunoso del titolo italiano superleggeri sul campione Bruno Freschi. In seguito avrebbe convalidato il possesso del titolo con prove sempre più confortanti. Giancarlo Barabotti il primo sfidante, veniva battuto con una superiorità di ritmo impressionante fin dall’inizio. Nel 1978 disputa tre sfide nazionali prima di effettuare l’assalto all’europeo. A Milano Ernesto Bergamasco soccombeva in otto round mentre a Senigallia demoliva il campano Giuseppe Corbo in nove riprese. Anche Efisio Pinna si arrendeva prima del limite e la stagione finiva con il predetto confronto per la corona europea superleggeri superato ai punti a Bilbao da Fernando Sanchez, tentativo fallito più per inesperienza che per la superiorità dello spagnolo. Il 1979 lo vedeva vittorioso in Italia dove sbaragliava ogni possibile avversario. A Milano era ancora Giuseppe Corbo ad arrendersi al decimo tempo. A Corinaldo, uno scontro di teste con entrambi i pugili feriti, procurava un no-contest con il piemontese Francesco Gallo. A Fabriano, con una chiara vittoria ai punti batteva Luciano Navarra e ad Iseo Giuseppe Russi lo impegnava più del previsto. Il suo miglior pugilato aveva partita vinta a Chivasso su Felice Gallo che aveva voluto riprovare. Il 1980 si apre con una rapida vittoria su Luciano Navarra a Viterbo, quindi a Bitonto era Patrizio Burini ad essere respinto in tre round. Giuseppe Martinese era pronto per un secondo confronto continentale A Senigallia il 27 agosto 1980 darà all’Italia il terzo titolo europeo dei pesi superleggeri battendo l’inglese Clinton McKenzie. Fu un combattimento tremendamente duro, violento, selvaggio, disputato con il massimo impegno da entrambi i pugili. All’undicesimo round i responsabili di McKenzie trattennero all’angolo il loro assistito, distrutto dalla fatica e dalle ferite al volto. Tre mesi dopo metteva in palio volontariamente il titolo con lo spagnolo Antonio Guinaldo il quale senza avere le credenziali di grande picchiatore lo sorprendeva con un destro preciso mettendolo al tappeto. Per sua sfortuna nel cadere picchiava violentemente la nuca sul tavolato ed il fatto gli impediva una rapida ripresa. Perso l’europeo, in attesa di una doverosa rivincita, per il marchigiano non restava che rivolgersi al titolo italiano che aveva abbandonato dopo la conquista dell’alloro continentale. Ad Agnone il 27 maggio 1981 la sua disperata voglia di riemergere lo portava ad un chiaro successo su Luciano Navarra che nel frattempo era approdato al primato italiano. Poteva essere l’inizio di un’altra notevole cavalcata nazionale ma la sfortuna giocava il suo nefasto ruolo. A Senigallia la sua città d’adozione, davanti al suo pubblico dopo tre riprese in equilibrio un testata involontaria, reciproca, un spacco all’arcata soppracciliare sinistra gli impediva di continuare. Il suo sfidante Giuseppe Russi, tra le proteste del pubblico, diventava  campione italiano. Nel frattempo un nuovo astro del pugilato nazionale stava sbocciando. Patrizio Oliva aveva bruciato le tappe superando Russi si era impossessato della corona nazionale e come primo sfidante si ritrovava l’immarcescibile Martinese. A Forio d’Ischia disputarono un grande match e  certamente non per sua colpa, il pugliese-marchigiano falliva l’occasione. Ma quando il grande Oliva, campione d’Europa, lasciava vacante il titolo nazionale Martinese era pronto di rincalzo. A Livorno in casa dell’avversario Bruno Simili, l’esperienza, la classe e la potenza ebbero la meglio del giovane avversario. Subito dopo a Mercatino Conca respingeva con difficoltà Giovanni Carrino, tra le proteste dell’avversario convinto a sua volta di essersi meritato la vittoria. Ci voleva quella vecchia volpe di Gimenez per porre fine alla sua corsa ma anche questa volta il verdetto lasciava strascichi a non finire. Era Martinese a recriminare per un giudizio negativo che per molti osservatori doveva almeno essere di parità. La successiva sconfitta con Alessandro Scapecchi, dovuta all’intervento del medico, alimentava in lui la voglia di smettere con il pugilato attivo per dedicarsi completamente alla palestra che aveva aperto a Senigallia. Una bella storia la sua che dalla dura situazione di emigrante ha lasciato un segno importante non solo nella storia della categoria ma nel pugilato italiano.

Sul gradino numero nove pongo Primo Bandini. Con Primo Bandini la categoria torna a respirare aria continentale. Il forlivese sarà il secondo pugile italiano a fregiarsi del titolo europeo. Prima di lui solo il grande Bruno Arcari era riuscito  nell’impresa. Soprannominato “Maremoto” per il suo modo di combattere, fatto di incessanti attacchi di crescente incisività, Primo Bandini approdava al professionismo dopo un buon percorso dilettantistico che lo avrebbe portato a sfiorare la conquista del titolo italiano a San Benedetto del Tronto nel 1973, battuto in finale da Giuseppe Russi. L’anno successivo passava al professionismo con un crescendo di incontri vittoriosi e si portava a ridosso del campione in carica Romano Fanali, pugile di grande valore ed esperienza anche se sul finire di una luminosa carriera. A Forlì sul ring allestito a Villa Romiti, Maremoto onora il suo nomignolo in un match fatto di attacchi senza soste e serie di colpi corti vincenti. Difenderà la corona dall’imperioso assalto del sardo Efisio Pinna, un battant che si era conquistato una discreta fama in Francia con numerose vittorie prima de limite. Bandini ottimamente preparato non cadeva nella trappola che l’avversario gli aveva preparato e con un pregevole gioco di gambe riusciva a neutralizzare l’arrembante sfidante. Una trasferta in Australia con verdetto scandaloso a favore di Andy  Broome e la vittoria su Ernesto Bergamasco sono la prova generale per il titolo europeo. Bandini si avvicina al match più importante della sua breve carriera con la solita accurata preparazione deciso a battere un avversario  forte e difficile da superare. All’Arena Lungomare di Rimini stracolma di tifosi, il forlivese iniziava bene con un oscuro lavoro al corpo e non era certo in svantaggio al sesto round quando un’ennesima testata del francese apriva uno spacco sulla fronte del nostro impossibilitato a proseguire. L’arbitro Thompser promulga la giusta squalifica del francese Jean-Baptiste Piedvache e Primo Bandini diventa il primo romagnolo a conquistare il titolo di campione d’Europa. Il naturale retour-match si disputava a Parigi alla fine dell’anno. Un inspiegabile comportamento del forlivese lo condanna ad una sconfitta imprevista almeno nel modo in cui avvenne. Dopo aver vinto il primo round Bandini si accascia al tappeto sotto un colpaccio del francese. Vuoto e senza reazione si lascia contare fino al fatidico ‘out’ finale. Il dramma non fu la sconfitta in se ma quanto successo in famiglia poche ore prima che salisse sul ring. La moglie aveva dato alla luce due gemelle nate morte. Evidentemente qualcosa sentiva dentro di se. Una inquietudine inspiegabile ne aveva ridotto le capacità di reazione tanto da sembrare un altro La parentesi pugilistica del romagnolo aveva vissuto il suo ultimo atto. Non salì più sul ring: una carriera breve fatta di 24  combattimenti  con solo due sconfitte.

Alla decima postazione inserisco Romano Fanali. Livorno per un certo periodo della sua storia ha dato vita ad un’eccellente scuola pugilistica e Romano Fanali fu uno dei suoi protagonisti. Durante la supremazia di Bruno Arcari in Europa e nel Mondo sul trono nazionale si avvicendarono diversi pugili. Il primo di questi fu Romano Fanali, livornese puro sangue, tecnico dotato di discreta potenza schiantava in poco più di quattro minuti il tarantino Bruno De Pace sul ring dell’Ardenza, nel match per il titolo che era vacante. Fanali era giunto in vetta ai valori nazionali al suo trentesimo combattimento, tutti vinti tranne quello con il talentuoso ghanese Eddie Blay. Successivamente salvava la corona con un discusso verdetto di parità al cospetto di Massimo Consolati e con Ermanno Fasoli, feritosi al settimo round quando i due viaggiavano sul filo della parità. Proprio a quest’ultimo dovette lasciare il titolo nel loro successivo confronto a Cecina. Il livornese appariva sotto tono e lontano dalla forma migliore. Ritentava una prima volta la riconquista del primato ma a Bergamo, pur disputando un grande combattimento, Ermanno Fasoli lo batteva nuovamente. Dopo un’onorevole sconfitta a Lione contro il locale René Roque per il campionato europeo, sfidava il campione italiano in carica Pietro Cerù. Allo Stadio dei Marmi di Carrara, dovette arrendersi per una frattura intercostale al sesto round. Testardo il livornese tornava un anno dopo a Carrara e si prendeva una sontuosa rivincita. Con una prestazione super, che suggellava il suo ritorno alla forma migliore, toglieva il titolo al rivale, fermato dall’arbitro all’inizio del quinto round. Il buon momento lo portava ad una nuova vittoriosa difesa a Enna su Tommaso Marocco, messo fuori combattimento all’undicesimo round con un perfetto uno-due. Ma il match verità con l’eterno rivale Pietro Cerù incombeva. Malgrado la sua linearità tecnica e l’esperienza dovette soccombere alla vitalità dello sfidante che gli toglieva il titolo. A trentuno anni Fanali non si dava per vinto. A Durban soccombeva con verdetto casalingo a Kokkie Olivier e a Barcellona contro Josè Ramon Gomez Fouz disputava una prova eccellente che gli fruttava un match contro lo stesso avversario, che nel frattempo aveva conquistato il titolo europeo. A Barcellona il 18 giugno 1975 Fanali si superava, avrebbe meritato almeno il pareggio e scendeva dal ring tra gli applausi degli spettatori. Ma la saga del toscano era destino non finisse così. Il titolo italiano che fu suo per due volte era passato nelle potenti mani del veneto Bruno Freschi. A Livorno gli organizzatori si fecero in quattro per portare l’udinese nella città labronica in difesa del titolo. Al Palazzetto dello Sport i numerosi tifosi assistettero al terzo trionfo del loro campione. Freschi fermato dal medico al sesto round era stato per ben tre volte gettato al tappeto dall’incisivo destro del nuovo campione. Sei mesi dopo a Forlì Primo Bandini lo superava con un verdetto ai punti ma che faceva capire al livornese l’approssimarsi della decisione finale, quella di lasciare il ring. Non prima di un’ultima apparizione ad Oslo da dove era impossibile tornare con un verdetto favorevole. Ci ha lasciati da poco: da 8 anni risiedeva a Collesalvetti dove era stato in forza alla polizia municipale.

Pietro Anselmi

 

 

 

 

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