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ACCADDE OGGI, TAMAGNINI DIFENDE IL TITOLO EUROPEO

 

 

Il 7 dicembre del 1936 piega Gustave Humery a Parigi

di Alessandro Bisozzi

Vittorio Tamagnini aveva appena conquistato, da circa due mesi, il titolo d'Europa della categoria dei pesi leggeri battendo il belga Raymond Renard al teatro Jovinelli di Roma.
Fu un successo che arrivava alla fine di un lungo percorso. Vittorio aveva già provato l'assalto al titolo continentale cinque anni prima, nel 1931, contro il fortissimo spagnolo Jose Girones, che purtroppo per lui gli fece provare per la prima volta l'amaro sapore della sconfitta. Poi nel 1935 provò di nuovo contro il francese Maurice Holtzer, ma le cattive condizioni della sua mano sinistra, e un incidente procuratosi alla destra durante il match, gli fecero perdere anche quella sfida.
Il 10 ottobre del 1936, finalmente, Tamagnini conquistò il titolo continentale in una categoria, quella dei leggeri, che non era propriamente sua. Egli infatti era un peso piuma naturale ed in questa categoria era anche campione italiano.
Ora doveva difendere il titolo. L'avversario designato era il fortissimo francese Gustave Humery, soprannominato "la tigre di Valenciennes", un pugile che stava inseguendo la corona europea da lungo tempo. (nella foto una fase del confronto Tamagnini-Humery)
Tamagnini per quell'incontro firma un contratto molto vantaggioso per lui, ma dovrà incontrare Humery a Parigi perché l'evento sarà organizzato da uno dei più importanti manager del mondo: l'americano Jeff Dickson, che aveva il suo quartier generale proprio a Parigi.
La boxe era allora uno sport molto seguito e apprezzato in tutta Europa, e la capitale francese, in particolare, era diventata un punto di riferimento per molti pugili che arrivavano da tutto il mondo nella speranza di trovare dei manager capaci e buoni ingaggi. Combattere al Salle Wagram, al Velodrome o al Paris Ring equivaleva ad essere al Madison Square Garden di New York.
Ma chi era Gustave Humery? Questa la descrizione tratta dal libro "Vittorio Tamagnini, L'uragano di Amsterdam" : «Gustave "Tiger" Humery, classe 1908, "Tatave" per i parigini, l’uomo dei favolosi guadagni per Dickson, il pugile adorato e venerato più di ogni altro, a parte Al Brown.
"Un asso, un mulino a vento, una mitragliatrice, qualcosa di straordinario": così il manager lo descriveva nei cartelloni pubblicitari ideati da lui stesso e che faceva affiggere ai muri di Parigi, prima dei suoi combattimenti.
"L’ariete pallido", come lo chiamavano in Francia per via della sua attitudine allo scontro fisico e per l’incarnato chiarissimo, a guardarlo bene non aveva neanche lontanamente l’aspetto del boxeur.
Quell'apparente fragilità fisica, il viso cereo e la caratteristica scriminatura centrale dei capelli, stirati da abbondanti dosi di brillantina, che non riuscì a spettinare nemmeno un terribile knock out alla prima ripresa subìto da Al Brown, gli davano più l'aspetto di un impeccabile impiegato di banca che quello del campione di Francia dei pesi leggeri.
Chiunque lo avesse affrontato avrebbe potuto godere, sulle prime, dell’istintiva e rassicurante sensazione di poterselo togliere di torno in un paio di riprese, ma sotto quelle anonime sembianze si nascondeva la sua vera natura, quella di un autentico killer del ring, un tiratore scelto che amalgamava, in maniera stupefacente, capacità di concentrazione, precisione e violenza.
Malgrado lo stile fosse ridotto alle minime nozioni essenziali del manuale pugilistico, "Tatave" sintetizzava in sé tutto il necessario per arrecare danni devastanti spendendo la minor quantità di energia possibile.
Aveva un pugno non potentissimo in senso assoluto, sebbene coloro i quali ne subirono gli effetti ricordavano poi tutti la stessa cosa: una specie di scossa elettrica che partiva dal punto colpito, attraversava il cervello e arrivava fino alle gambe che cedevano di schianto.
Possedeva il pugno elettrico Gustave, tuttavia, al pari dell’eroe greco Achille, pure lui aveva il punto debole: la mandibola, fragile come il vetro e preda ambita degli avversari i quali sognavano di colpirla finanche un attimo prima della fine dell’ultimo round, ammesso di aver avuto la fortuna o la capacità di arrivarci.»
Un pugile potente e pericoloso, dunque, che affrontava senza tanti problemi anche avversari di una o due categorie superiori alla sua, e soprattutto intenzionato a strappare ad ogni costo il titolo d'Europa al civitavecchiese.
Era un match attesissimo, i giornali sportivi di tutta Europa ne parlavano, era un evento che l'abilità mediatica di Jeff Dickson trasformò in una sfida epica, uno di quegli incontri che in altri tempi sarebbe stato seguito da decine di televisioni di tutto il mondo.
Parigi aveva decine di impianti attrezzati per ospitare incontri di pugilato, ma il più grande di tutti era il velodromo d'inverno, un grandioso stadio costruito in stile liberty, completamente chiuso e coperto da un insolito tetto trasparente. In questo enorme impianto, che aveva dimensioni tali da poter ospitare ventimila persone, il ring veniva montato all'interno del tracciato del velodromo.
Un ambiente assolutamente straordinario, uno scenario mozzafiato per qualunque grande campione trovarsi davanti ad un pubblico così vasto. Era lo stesso luogo dove Carlo Saraudi aveva combattuto durante le Olimpiadi di Parigi del 1924.
Tamagnini arrivò a Parigi accompagnato dal padre Benedetto, dall'allenatore Bruno Zambarbieri detto "Raffa", dal suo procuratore Pasquale Gramegna e da un suo collega, il peso medio Mario Casadei, impegnato nella stessa serata in un incontro sotto clou.
Vittorio, che era già stato a Parigi altre volte, portandosi dietro la pesante fama di essere l'italiano che aveva battuto il campione del mondo Al Brown e l'ex campione del mondo Victor Perez, era così popolare che veniva riconosciuto per la strada e salutato sportivamente da tantissime persone. La palestra dove si allenò nei giorni che precedettero l'incontro era diventato il crocevia dei più celebri giornalisti del tempo, gente come Victor Shapiro o Henri Desgrange (ex campione di ciclismo) o George Peters che passavano ore ad osservare il campione olimpionico di Amsterdam mentre si allenava insieme al suo grande amico, il leggendario fuoriclasse Cleto Locatelli.
Tutti i quotidiani francesi diedero ampio spazio all'avvenimento e le operazioni di peso si effettuarono proprio nella sede del più famoso di essi: "L'Auto", il giornale sportivo che veniva stampato su pagine dal caratteristico colore giallo, il colore che il suo direttore Henri Desgrange, che fu l'ideatore del Tour de France, scelse per la maglia del primo in classifica della corsa ciclistica a tappe più famosa al mondo.
     La sera del 7 dicembre 1936 il velodromo era pieno all'inverosimile, l'attesa per l'incontro aveva raggiunto livelli straordinari, del resto si confrontavano due tra i pesi leggeri più forti d'Europa e lo spettacolo si preannunciava di assoluto interesse.
 L'ingresso nello stadio per Tamagnini fu trionfale; nonostante si trovasse a Parigi, ventimila spettatori gli tributarono un'accoglienza calorosissima. Era il campione d'Europa e il pubblico ne riconosceva apertamente l'assoluto valore.
Il match si apre con un rabbioso attacco del francese, sempre molto pericoloso durante i primi minuti. Tamagnini si mantiene sulla difensiva, studia i movimenti del rivale, schiva con precisione i colpi più pericolosi, poi già dalla seconda ripresa comincia a farsi piuttosto insidioso.
Vittorio era dotato di una non comune predisposizione a capire immediatamente l'impostazione tattica dell'avversario e proprio grazie a questa capacità riusciva poi ad impostare le successive manovre di attacco. Era una qualità istintiva che lui riusciva a mettere al proprio servizio con grande intelligenza strategica.
Le sue finte in avanti servivano, oltre che a studiare la capacità di reazione dell'avversario, a stancarlo fisicamente e psicologicamente, le sue prodigiose schivate mandavano a vuoto ogni assalto del francese che ad un certo punto, accortosi della classe e delle straordinarie qualità del civitavecchiese, comincia a dare chiari segni di nervosismo.
È il momento che Tamagnini aspettava. Ha scoperto il punto debole dell'avversario, lo ha stuzzicato per rendere chiare e tangibili le sue qualità, per saggiarne velocità, potenza e riflessi.
All'inizio della terza ripresa parte decisamente all'attacco, assalti rapidi, precisi, continui, offensive che non danno spazio al francese costretto ad arretrare. A volte Vittorio si ferma dando l'impressione di retrocedere, ma è solo una finta. Quando Humery avanza lui scatta subito in avanti cogliendolo d'incontro, lo anticipa con un tempismo e dei riflessi eccezionali. È in una condizione di forma stratosferica, sfoggia una prestazione superba, potente, che forse non ha mai eguagliato prima.
Tamagnini si è preparato con cura per un combattimento che avrebbe potuto essere il più duro della sua carriera e che invece si è trasformato in un calvario per la "tigre di Valenciennes", costretta a subire una dura lezione di pugilato.
Il pubblico comincia a fischiare all'indirizzo del francese che è completamente in balia delle violente incursioni del pugile civitavecchiese il quale, ogni tanto, si permette perfino l'uso di una finezza stilistica di chiara impronta americana. Egli scatta in avanti allungando il jeb sinistro che colpisce il volto di Humery, poi, indugiando un attimo nel ritrarlo, ne sfrutta l'appoggio scaricando il diretto destro due o tre volte. L'azione deve essere fulminea per riuscire. Sono pugni terribili e il pugile deve dare quasi la sensazione di essere trattenuto, perché la tattica è al limite del regolamento che vieta di tenere ferma la testa dell’avversario con una mano mentre si colpisce con l’altra.
Al termine della quinta ripresa Humery appare esausto, gli ultimi colpi subiti sono stati devastanti, ha dovuto resistere a un'autentica furia scatenata e rientra all'angolo molto provato.
È l'inizio della sesta ripresa.
Tamagnini si porta al centro del ring, ma Humery è ancora seduto sullo sgabello, seguono attimi concitati, il pubblico fischia la sua disapprovazione a lungo e il velodromo si trasforma in un inferno. L'arbitro si porta all'angolo del francese dove c'è chiara agitazione, cerca di capire cosa succede; Humery si stringe la mano sinistra al petto, non si alza, lo sguardo è fisso al tappeto in un'espressione emblematica, per lui parlano i suoi secondi. È tutto chiaro ormai.
L'arbitro si avvicina a Tamagnini, gli afferra il braccio e lo alza in segno di vittoria.
Humery abbandona e Vittorio è ancora campione d'Europa dei pesi leggeri.
Un trionfo, un successo grandioso sul ring più prestigioso d'Europa davanti a 20.000 persone.
Cleto Locatelli lo aveva pronosticato quando dichiarò che Humery non avrebbe avuto scampo contro un peso leggero dalla velocità di un piuma.
Il suo match più difficile si è trasformato in un'apoteosi per lui che scende dal ring tra le ovazioni del pubblico, deluso dal comportamento dell'idolo di casa che poi dichiarerà di aver abbandonato a causa di un infortunio alla mano sinistra.
Tamagnini è raggiante; Parigi gli tributa onori che in precedenza aveva riservato solo a grandissimi fuoriclasse. Il giornale "Paris Soir", il giorno dopo, lo descrive come "brillantissimo e bellissimo campione".
Per il civitavecchiese si tratta di una delle più belle affermazioni sul ring; ha conquistato il titolo d'Europa appena due mesi prima e ha avuto il coraggio di andarlo a difendere nella tana del più pericoloso avversario in circolazione.
Tamagnini era campione d'Europa dei pesi leggeri e campione d'Italia dei pesi piuma e in quel momento dominava la scena internazionale in entrambe le categorie.
Nulla sembrava poterlo più fermare verso il titolo mondiale, nulla o nessuno che potesse indossare un paio di guantoni e salire sul ring contro di lui.
Ma a volte il destino riserba prove ben più dure e assolutamente imprevedibili, prove che possono annientare chiunque, anche un pugile pronto ad ogni sfida, senza nemmeno toccarlo.
 
Alessandro Bisozzi

 

 

 

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